lunedì 13 maggio 2024
La drammatica situazione del Kenya, uno dei Paesi colpiti da settimane di inondazioni senza precedenti nell'Africa orientale. La popolazione più colpita è quella delle bidonville
Un escavatore al lavoro nella baraccopoli inondata

Un escavatore al lavoro nella baraccopoli inondata - Ansa

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La periferia di Nairobi è inondata da una fiumana di fango maleodorante e detriti. Lo stesso scenario è riscontrabile nelle campagne, fuori dalla capitale keniana. Un po' dappertutto sono visibili frane, voragini, ponti crollati, strade e ferrovie spazzate via. La pioggia in queste ore si sta attenuando, mentre i fiumi in piena “muggiscono” ancora ininterrottamente. Le parole da sole non riescono a descrivere lo stato di degrado in versa la popolazione, soprattutto i ceti meno abbienti. Nairobi – è bene precisarlo – è una città dalle mille contraddizioni: inferno e paradiso.

Per chi viene in macchina dall'aeroporto internazionale Jomo Kenyatta e ha vissuto in passato in questa megalopoli, ciò che colpisce è l’evoluzione incontrollata: centri commerciali extra-lusso e autostrade a pagamento finanziate e realizzate dalle imprese cinesi per conto del governo, per non parlare dei quartieri residenziali. Purtroppo, però, le diseguaglianze, si sono drammaticamente acuite a dismisura. Stiamo infatti parlando di una metropoli di cinque milioni e mezzo di abitanti di cui il 60 per cento della popolazione è insediata nelle 110 baraccopoli che costellano la capitale. Kariobangi, Korogocho, Dandora e Mathare sono quelle più densamente popolate, dove circa un milione e mezzo di persone vive in case fatiscenti, baracche di lamiere spesso senza luce, fogne e acqua corrente. Qui il degrado ambientale è una vecchia storia, ma ora la situazione in certe zone è davvero fuori controllo. Basti pensare che stiamo parlando di una città in cui il 26 per cento dei bambini tra i 5 e i 14 anni lavora in condizioni disumane: 12 ore al giorno per una manciata di scellini (al massimo neanche un euro). Stiamo parlando di circa 300.000 bambini, di cui 60.000 sono «street children» (bambini di strada). Molti di loro, tradizionalmente, sbarcano il lunario raccogliendo ogni genere di scarto nella discariche di Dandora e Mukuru, tra le più grandi a cielo aperto d'Africa e le più inquinate al mondo. Con il diluvio universale che si è scatenato in queste 7 settimane non è quindi difficile immaginare in che condizioni versi ora questa umanità dolente. Le baraccopoli sono attraversate da due fiumi che sono esondati ripetutamente, spazzando via ogni genere d'insediamento: il Nairobi e il Mathare rivers. Tutto è sommerso dai liquami fuoriusciti non solo dai corsi d'acqua, ma anche dalle tradizionali fogne a cielo aperto. Un pantano che in alcuni punti ha superato il metro di altezza, costringendo la gente a trovare riparo sui tetti in lamiera delle loro già fatiscenti abitazioni. Il ministero degli Interni ritiene che quasi 200 dighe siano ad alto rischio nel Paese, motivo per cui è stato impartito l'ordine di evacuazione in 33 contee dove sono presenti bacini idrici artificiali. L'erogazione dell'energia elettrica in alcune zone dell'entroterra è interrotta da giorni. Sui giornali locali si legge che il governo si è «mobilitato coordinando il supporto logistico per alleviare le sofferenze di coloro che hanno perso tutto».

Facile a dirsi, anche se poi alla prova dei fatti scarseggiano gli alloggi temporanei e le forniture essenziali per portare sollievo alla gente colpita da una calamità che si sta procrastinando irrimediabilmente nel tempo. Le previsioni, infatti, sono foriere di nuove piogge torrenziali che, com' è noto, hanno già provocato inondazioni senza precedenti in tutta la macroregione dell'Africa orientale. In Burundi, Kenya, Ruanda, Somalia, Etiopia e Tanzania, secondo l'Agenzia delle Nazioni Unite per le Migrazioni (Oim), 637.000 persone sono state colpite dalle incessanti piogge e 234.000 sono state costrette ad abbandonare le proprie case.

Le autorità a scopo cautelare hanno chiuso le scuole a tempo indeterminato (1.161 resteranno chiuse per sempre perché spazzate via dalle acque) e quando ogni tanto il cielo si apre a sprazzi, in quegli scampoli di tregua tra uno “sgrullone” e l'altro, i bambini scendono nei viottoli delle baraccopoli per giocare. Colpisce il loro sorriso misto a stupore quando vedono i missionari e i volontari delle organizzazioni umanitarie prodigarsi nel portare sollievo distribuendo aiuti. Tra loro, ogni giorno, con ineffabile passione, è presente con i suoi volontari padre Maurizio Binaghi, comboniano, direttore di Napenda Kyushu, un programma per giovani di strada tossicodipendenti disseminati nelle baraccopoli. Grazie alla generosità del Sovrano Ordine di Malta, queste sentinelle del mattino stanno distribuendo materassi e coperte ai civili alluvionati, molti dei quali piangono le loro vittime. Le cifre ufficiali fornite dal governo di Nairobi parlano di oltre 200 morti, altrettante le persone ferite, mentre oltre 200mila sarebbero sfollate. Naturalmente è un computo che va preso col beneficio d'inventario anche perché è molto difficile riuscire a monitorare quanto realmente sta avvenendo negli insediamenti urbani più svantaggiati nelle periferie. Viene spontaneo domandarsi quali siano le ragioni che hanno determinato questa crisi climatica i cui effetti stanno peraltro penalizzando fortemente l'economia locale, non solo dal punto di vista infrastrutturale ma anche agricolo. Pare ormai certo che si tratti di una calamità causata dalla combinazione di due fenomeni meteorologici legati al surriscaldamento globale: El Niño e il Niño indiano, con il risultato che la superficie dell’Oceano Indiano risulta essere più calda del solito, favorendo così l’intensità delle precipitazioni. Considerando poi che a queste latitudini si acuisce costantemente l'alternanza estrema delle stagioni: prima le piogge e poi lunghi periodi di siccità, è evidente che occorre realizzare interventi strutturali di prevenzione che per essere realizzati necessitano finanziamenti che almeno per il momento non sembrano essere disponibili, vuoi per la corruzione, vuoi per l' indifferenza da parte del consesso delle nazioni. In queste ore in Kenya, c’è anche grande preoccupazione per i campi profughi di Dadaab che ospitano più di 380.000 rifugiati somali. Quasi 20mila di loro sono stati costretti ad abbandonare le loro tende a causa dell’innalzamento dei livelli dell’acqua. In altre parole, proprio loro che erano già profughi in terra straniera, lo sono ora perché doppiamente abbandonati ad un inesorabile destino. Circa 4.000 persone sono attualmente ospitate in sei scuole, le cui strutture sono state gravemente danneggiate. Le altre sono ospitate da amici o parenti in altre parti dell’insediamento. Molte latrine sono crollate, mettendo questa povera gente a rischio di malattie infettive mortali, veicolate dall’acqua. Non è un caso se l'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) abbia dichiarato ufficialmente che nella contea di Tana River, nel Kenya orientale, sono stati già rilevati 44 casi di colera.

Una cosa è certa: ciò che colpisce maggiormente in simili circostanze l'ignaro osservatore è quel senso di grande impotenza di fronte allo scatenarsi delle forze della natura. Lungi da ogni retorica di circostanza, sotto il profilo umano non rimane che assistere sgomenti allo spettacolo della desolazione e dei danni causati dalle infauste inondazioni. L’aggettivo non è casualmente scelto: esso sottolinea il senso di spavento, la paura che assale l'anima davanti alla calamità impossibile da fronteggiare e che si abbatte rovinosamente colpendo gli esseri umani e il loro habitat vitale, spazzando via tutto quanto incontra sul suo percorso e lasciando dietro di sé desolazione e rovina. A questo proposito è davvero illuminante la straordinaria testimonianza di coloro che, non solo a Nairobi, ma anche nell'intero scacchiere orientale del continente africano credono nella solidarietà fattiva, missionari in primis.

Ma è altrettanto chiaro che in Kenya, come in altre parti del vasto continente africano, più passerà il tempo e più occorrerà imparare a misurarsi con i disastri ambientali e le calamità naturali generati in gran parte dai cosiddetti cambiamenti climatici. Una sfida che non può certo essere disattesa. Per carità, gli organismi internazionali hanno messo a punto strumenti svariati per il monitoraggio quantitativo e qualitativo di tali fenomeni; dall'altro canto però s'impone l'urgenza, più che mai attuale, di assicurare una giustizia sociale perché è inaccettabile un fatto incontrovertibile: a pagare sono sempre i poveri, gli ultimi nella scala sociale.

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